​GUIDO D’ONOFRIO, STORICO DI CARUSO, E ENRICO JR.

Non ho avuto – e, per evidenti distanze anagrafiche, non potevo avere – la fortuna di conoscere personalmente Enrico Caruso.

Ma sin dalla più giovane età (quando con passione e rispetto cercavo di accostarmi anch’io all’arte della Lirica) mi bastò sentire qualche sua romanza su un vecchio grammofono a tromba, per scoprire l’immenso fascino della sua inimitabile voce, ed essere attratto dalla sua poliedrica personalità di uomo e di artista.

Fu – si potrebbe dire – “amore a primo…..ascolto”. Un sentimento che, con ammirazione incondizionata coltivo tuttora: col limpido immutato entusiasmo della mia gioventù; con le motivate ragioni che vengono da una conoscenza piena e diretta, a dispetto di ogni distanza di spazio e di tempo.

Mi si vorrà perdonare se, per queste testimonianze, sono costretto a parlare in prima persona: non certo per protagonismo, ma per cercare di trasmettere con più spontanea immediatezza, almeno parzialmente la carica di emozioni che sale dalla realtà di tante vicende e dagli angoli più lontani della memoria.

Non con lo spirito interessato del collezionista, bensì con l’animo semplice e disinteressato di cultore, ho cominciato, dunque, sin dalla mia gioventù, a raccogliere ogni possibile testimonianza della persona e dell’arte del nostro grande tenore, ovvero il più grande tenore di tutti i tempi, non solo in Italia ma nel mondo intero.

Quella paziente, tenacissima ed anche sofferta opera di ricerca lasciava comunque un po’ inappagata quella mia voglia di sempre più stretta “vicinanza” alla persona dell’”amico” tenore. Così riuscii ad entrare in contatto col suo secondo figlio, che aveva il suo stesso nome – Enrico Caruso jr. – e viveva a Jacksonville, in Florida.

Bastò il calore della schiettezza di una lettera, seguita da qualche telefonata, per dare al mio interlocutore la prova della sincerità disinteressata della mia amicizia, e per regalare a me stesso la gioia di sentirmi, finalmente anche fisicamente, vicino al mio idolo attraverso il rapporto – sia pure a distanza – con una delle persone a lui più care e vicine nei percorsi della sua esistenza. Era il 1984.

La confidenza che maturò da quel contatto basato su amicizia e reciproca stima, mi consentì di arricchire il bagaglio di conoscenze e notizie che già per mio conto avevo acquisito come storico del mitico tenore. E, attraverso i ricordi del figlio assunsero una più personale profondità tanti aspetti della vita privata di Caruso: così da indurmi ad accostarmi in modo sempre più diretto, anche nei comportamenti, alla figura dell’Artista. Per una fugace conferma di quanto ho appena detto, la venerazione per il mio idolo mi portò anche a nutrirmi del suo stesso stile di vita: adottai, infatti, un “fox terrier”, cane della stessa razza particolarmente amata dal tenore!

Proprio il fraterno desiderio di assecondare l’amico Enrico jr. mi portò poi a sfatare una macroscopica falsità di carattere anagrafico – consolidata nel tempo sulle origini di Caruso – e a compiere una scoperta per la quale ampio credito ebbi da importanti testate giornalistiche di tutto il mondo. Di che cosa si trattava, in realtà? Cercherò di spiegarlo andando necessariamente un po’ indietro negli anni.

Per tanto, troppo tempo, le origini del grande Caruso erano state avvolte in una sorta di nebbia, tra riservatezza e mistero. E tra i più famosi biografi dell’epoca si era consolidata la voce che l’artista fosse stato il diciottesimo di ben ventuno figli, e – fatto mirabolante – il primo a sopravvivere all’infanzia dei diciassette fratellini che lo avevano preceduto. Questo indusse un suo autorevole biografo – Francis Robinson – ad attribuire la nascita e la sopravvivenza del piccolo Enrico a un prodigioso disegno del destino. Che a quel diciottesimo sopravvissuto aveva voluto donare “la più grande voce della storia del palcoscenico!”

E così, nella biografia del 1957 “Caruso is life in picture” annotò con estasiato lirismo: “”….in via san Giovanniello agli Ottocalli è passato un angelo il 25 febbraio 1873!”” Ma forse il primo e più grande responsabile della clamorosa “svista originale” era stato il biografo americano Pierre Key, che l’aveva pubblicata in anteprima nel 1922. E tutti i biografi successivi l’avevano ripresa e divulgata senza ulteriori controlli e con sconcertante superficialità.

Se un piccolo ma significativo merito posso ascrivere alla mia modesta persona, è quello di essere riuscito, da solo, appunto a scoprire l’inconfutabile verità sulle origini e sulla famiglia di Enrico Caruso, smentendo per la prima volta, da Foggia, la falsità e le inesattezze pubblicate per oltre sessant’anni dai più autorevoli soloni del melodramma. Il tutto con una semplice spinta di un duplice impulso: la mia caparbia voglia di verità e il desiderio di aiutare il mio carissimo amico americano a dissipare ogni dubbio sulle origini campane della sua famiglia. Enrico Caruso jr., che stava scrivendo una monumentale biografia sull’illustre genitore dal titolo: “Enrico Caruso my father and my family” era assillato, infatti, anche e soprattutto per motivazioni di mero interesse familiare, dall’ansia di conoscere qualcosa di più sui diciassette fratelli anonimi del padre.

Fu quasi naturale, per me, assicurare all’amico Enrico jr. che mi sarei impegnato alla ricerca di tutti i dati possibili, non solo sul suo grande padre, ma sulle origini e sulla composizione dell’intera famiglia.

Raggiunsi innanzitutto Piedimonte Matese (già Piedimonte d’Alife) paese d’origine dei genitori di Caruso, dove la paziente consultazione di centinaia di pagine dei remoti e polverosi registri anagrafici dell’epoca mi condusse alle prime incoraggianti scoperte. Prima di tutto, l’età dei genitori e la data del loro matrimonio: elementi fondamentali per l’esito delle indagini. Così, il padre del tenore, Marcellino, di professione ferraio, era di due anni più giovane della moglie, la filatrice Anna Baldini. E quando convolarono a nozze, nella Chiesa dell’Annunziata il 26 agosto del 1866 avevano rispettivamente 26 e 28 anni. Se è vero e dimostrato che il futuro sommo tenore nacque appena sette anni dopo quel matrimonio, come è mai possibile che la sua venuta al mondo sia stata preceduta dalla nascita di ben diciassette fratellini?

Per nulla appagato da questa già importante scoperta, proseguii le ricerche. A monte, un altro trascurato tassello: il nonno materno di Caruso, Vincenzo Giuseppe Baldini, subito dopo la nascita era stato trovato abbandonato, il 20 ottobre 1812, nella “ruota” dell’orfanotrofio di Piedimonte d’Alife. Era dunque figlio di ignoti. Furono poi le suore del convento a dare a quel trovatello il cognome Baldini.

La nonna materna del tenore, invece, mi inorgoglì a…distanza. Presentava infatti, una singolare omonimia col mio cognome, dal momento che si chiamava Carmela d’Onofrio: guarda caso, anche con la d minuscola!

Avendo rilevato dai registri comunali che i genitori di Caruso “subito dopo il matrimonio si erano trasferiti a Napoli” (per motivi di lavoro del padre, Marcellino, assunto come custode alle officine Meuricoffre), continuai le ricerche appunto presso lo Stato Civile del Comune capoluogo e, in ben cinque giorni di febbrili consultazioni, accertai puntigliosamente nomi e date di nascita di tutti i fratelli del tenore: due, nati prima di lui (Pasquale nel 1869, e Antonio nel 1871); e, successivamente, Giacomo (1874), Giovanni (1876), Francesco (1877) e infine Assunta (1881). In realtà, dunque, i fratelli di Caruso furono 6, e lui fu il terzo di sette figli. All’infanzia sopravvissero però solo in tre: oltre a Enrico, solo Giovanni e Assunta.

Missione compiuta, allora: chiaramente smentito che Enrico Caruso fosse il diciottesimo di ventuno figli; ed anagraficamente accertato che era, invece, il terzo di sette fratelli. Essendo ben difficile, comunque, ritenere che la prima versione fosse solo frutto di una superficialissima svista, mi sembra più logico propendere per una esaltata montatura giornalistica. Frutto, cioè, del disegno di chi voleva alimentare il mito di un artista il quale – prima ancora che alle proprie naturali doti di voce, sensibilità e presenza scenica – doveva successo e fortuna a una sorta di miracolo del caso e del destino.

Sono state molte le pubblicazioni che, in tutto il mondo, hanno recepito il valore delle mie scoperte dandole un giusto rilievo, per aver sfatato ciò che da sempre era stato definito “il mito più persistente della vita di Caruso”. Ma il premio più caro ed ambito è racchiuso, per me, in una lettera che Enrico Caruso jr. mi inviò dalla Florida e che custodisco gelosamente assieme a tanti ricordi del padre: “Caro Guido, mi mancano le parole per esprimerti la mia ammirazione e tutta la mia immensa gratitudine per la tua costanza e devozione alla nostra causa – dico nostra perché il lavoro di indagini sulla mia famiglia, che ha sortito scoperte inimmaginabili e sorprendenti, è, come già detto telefonicamente, incredibile! Senza di te sarei rimasto a secco di notizie da inserire nel mio libro biografico di prossima pubblicazione”.

A conferma della sua soddisfazione, esaltò poi più volte il mio nome nel suo lavoro biografico, dove volle pubblicare anche una foto che mi ritrae davanti al mausoleo del tenore, nel Cimitero del Pianto di Napoli. Lì, peraltro, da quaranta anni mi reco puntualmente nelle ricorrenze di Caruso (nascita e morte) per far celebrare a mia cura – io foggiano – funzioni religiose in memoria del grande tenore: con un’assiduità e una sollecitudine che – duole prenderne atto – non mostrano neanche i suoi discendenti diretti e i concittadini napoletani! E talvolta, per ripristinare pulizia e decoro, ho dovuto portare dalla mia città una squadra di addetti!

Dalla lontana Florida, il figlio di Caruso percepì appieno, evidentemente, lo spessore del mio impegno totale e della mia incondizionata devota ammirazione per l’illustre genitore. E mi lasciò una testimonianza di fiducia e apprezzamento preziosa quanto uno dei più rari cimeli. Così, con una missiva indirizzata al direttore del Cimitero del Pianto mi autorizzò al “libero ed incondizionato accesso” al Mausoleo carusiano. Tanto più importante, questa iniziativa, perché costituiva un’eccezione, per la mia modesta persona, dopo che in precedenza, a seguito di una sconcertante profanazione della tomba, avvenuta nel 1978, si proibiva quell’accesso “a chicchessia”.

Sono quindi l’unica persona al mondo a godere di tale privilegio. E serbo quella missiva con gratitudine e orgoglio, e con un’emozione particolare che deriva da un evento perlomeno singolare. Enrico Caruso jr. la scrisse e la firmò il 7 aprile 1987: precisamente due giorni prima della propria morte! Di questo originale riguardo – puntualmente annotato in diversi articoli di stampa – ha tenuto ben conto il Questore di Napoli. Nel 2009, infatti, dopo che la Polizia era riuscita a recuperare gli arredi funerari rubati da ladri-vandali nella tomba di Caruso, volle che quella preziosa refurtiva fosse consegnata – nel corso di una conferenza stampa – nelle mani del sottoscritto, unico ideale custode per l’esclusivo accesso al Mausoleo.

La nostalgia e il rammarico per la mancanza di un Museo carusiano nella terra natale del sommo tenore, trovano un motivo di degna e forse ancor più alta compensazione nella realizzazione del suggestivo Museo nella Villa Bellosguardo di Lastra a Signa. Se le mie modeste doti di storico e cultore possono avere un minimo rilievo, sono lieto di usarle per accompagnare tutta l’ammirazione che merita questa iniziativa.

Anch’io, pur nella modestia delle risorse e delle disponibilità, ho dedicato passione e energie nella raccolta di testimonianze di ogni tipo, della personalità e dell’Arte del nostro più grande tenore. E – quando il Museo di Lastra a Signa non era stato forse neppure immaginato – ho voluto lasciare una emblematica traccia in una città – come Sorrento – dove Enrico Caruso trascorse momenti struggenti, tra speranza e presentimenti, negli ultimi giorni che precedettero la sua immatura e dolorosa scomparsa.

Così, in virtù dell’amicizia che mi lega al proprietario del ristorante dedicato proprio al sommo tenore, ho fornito disinteressatamente moltissimi ricordi di Enrico Caruso, coniugando così le note della sua incomparabile Arte a quella della buona cucina napoletana ed internazionale. Questo locale è quindi denominato “Ristorante Museo Caruso” ed è punto di attrazione e di incontro di melomani e gastronomi di ogni parte del mondo.

Anche nelle più composte e rigorose memorie degli artisti c’è sempre qualche angolo rischiarato da barlumi di rilassata intimità o di giocosa familiarità, tra amici e persone più care, al tavolino di un bar, in un’allegra tavolata, o su un terrazzo a mare, col Vesuvio di fronte. L’ultimo Caruso lo ricordo così, con un guizzo vivido e sempre mutevole negli occhi: teneramente amorevole verso la sua piccola Gloria; ammiccante nella miriade di autocaricature in cui, con spietata ironia, si arrotondava oltre misura le proporzioni del ventre e delle guance; col recupero del suo vero timbro di voce e personalità quando intonava cameratamente l’inno delle truppe americane “Over There”, all’aperto, senza microfono e senza altoparlante, davanti a ben centomila persone!

Unico nella storia del melodramma; umanamente duttile nell’espressione del talento e della personalità. E’ questo il mio – il “nostro” Caruso: l’artista e l’uomo che io personalmente porto da una vita nel cuore.

Guido D’Onofrio storico di Caruso.

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